Cari blogger, nella vita esistono anche i doveri
di Michele Fusco e Massimiliano Gallo
Il diritto di rettifica non è una mortificazione, una privazione della libertà, ma uno dei capisaldi dell’informazione. Che a farla (l’informazione) sia un blogger o un giornalista poco importa. Non capiamo perché la Rete si batta per il principio di irresponsabilità, quasi a voler ribadire il carattere adolescenziale di ciò che viene prodotto sul web. Un atteggiamento pseudolibertario figlio della cultura del 18 politico che nuoce a tutti noi che abbiamo scelto questo strumento per sentirci più liberi.
Per raccontare la fragilità della politica, vi basterà pensare a una giornata schizofrenica come quella di ieri, nella quale sono accadute le seguenti (due) cose: da una parte la maggioranza ha predisposto un disegno di legge in cui è prevista financo la galera per i giornalisti che pubblicano intercettazioni non pubblicabili, dall’altra la stessa maggioranza ha calato rapidamente le mutande su una norma di minima civiltà giuridica come quella dell’obbligo di rettifica per blogger, social network e quant’altro. Noi oggi ci vogliamo occupare di questo secondo aspetto, per dire subito che la civiltà e la democrazia della Rete non passano per la libertà d’essere imprecisi, arruffoni, insultanti, quando non irresponsabili.
Prima di tutto, cosa distingue un giornalista da un blogger? Apparentemente nulla, tutti e due mangiano, pregano, amano, riflettono, scrivono, analizzano, tirano delle conclusioni, sbagliano. Ecco, sbagliano. Quando succede, il giornalista deve ottemperare a norme, leggi, sanzioni. Deve rimettere a posti i cocci, ammesso che abbia rotto qualcosa. Deve replicare, controbattere e non abbassare la testa, nel caso ritenga di avere ragione. La domanda è: perché un blogger dovrebbe prendersi “solo” la parte buona, cioè il racconto, l’indignazione, l’attacco ai potenti e lasciare ai giornalisti quella cattiva?
Entriamo nello specifico, visto che in questo povero Paese il legislatore è in grado di complicare cose semplicissime. Qual era il punto cruciale? La rettifica. Nel casino generale, nelle grida disperate per i presunti attacchi alla democrazia della Rete, non si è dato alcun peso alle parole e al loro significato. Apriamo il dizionario e vediamo alla voce rettifica di cosa si tratta: rettifica è intesa come «correzione» o «modifica». Benissimo. Cos’è passato come messaggio? Che il governo Berlusconi voleva mettere i mutandoni della censura alla Rete. Anche volendolo, capirete che è impresa titanica oltre che ridicola. Chi aveva interesse perché il pasticcio si facesse sempre più intricato, ha parlato di intimidazione. Siamo fuori strada.
Facciamo una premessa. Nel disegno di legge, una cosa aberrante c’era davvero e si trattava della sanzione pecuniaria di 12mila euro. Questa, semmai, era la vera minaccia alla Rete: i soldi, buttarla sulle tasche delle persone, instillare una paura concreta, tangibile, in grado di spegnere gli ardori, la voglia di raccontare, l’esigenza di far sapere. Soprattutto in tempo di crisi. Forse molti blogger non lo sanno, ma è un problema anche per i giornalisti, che spesso ricevono minacce di querele milionarie alle quali neppure i giornali di riferimento potrebbero far fronte. Sia chiaro: se c’è diffamazione, è giusto che i soggetti interessati agiscano e anche per via economica, se del caso. Ma questa, ormai, è l’epoca delle querele preventive, carte bollate che intendono spaventare, prima ancora che rivendicare un torto subito.
Torniamo alla rettifica. Abbiamo spiegato che la rettifica non ha nulla a che fare con la diffamazione, che è già regolata per legge. Se un blogger scrive che il ministro Pincopalla è un ladro e non è vero, il ministro Pincopalla ovviamente non chiederà una rettifica. Sarebbe ridicolo, oltre che sbagliato. Farà querela per diffamazione e quel blogger dovrà risponderne in tribunale. Questo già oggi. Perché quindi urlare all’attentato alla democrazia, quando rettificare è, generalmente, una questione puramente «tecnica», che non riguarda aspetti «sensibili» della vita delle persone?
Sopra a tutto questo, però, c’è una grande questione di crescita di civiltà. Sempre più persone, sempre più gruppi di persone, intendono far sentire la loro voce via internet. È la forza della Rete, si dirà. O una logica conseguenza, visto che gran parte della nostra vita quotidiana (figli e genitori compresi) si svolge attraverso il computer. Una forza, dicevamo, che in certi casi può trascinare persino a una consapevolezza di massa. Pensate agli ultimi referendum, davvero un caso di scuola. Ma proprio perché la Rete sta assumendo un ruolo di primaria importanza nel processi di sviluppo democratico, è necessaria una sua «depulcinizzazione», l’uscita da quella fase adolescenziale, ancorché meravigliosa, per entrare in quella delle responsabilità: i blogger, i social network, le forme anche più sofisticate di organizzazione, non possono più fermarsi all’idea, di per sé infantile, che sulla Rete si può dire e fare ciò che si crede. O almeno, non è più il tempo.
Avere consapevolezza dei propri doveri è, sarà, una dimostrazione di forza. In Italia, per legge, sono irresponsabili i minori di anni diciotto, gli incapaci di intendere e di volere, e gli interdetti. Ecco, crediamo che nessuno tra noi abbia scelto Internet come strumento di comunicazione per sentirsi irresponsabile. Anzi, è l’esatto contrario. E forse è giunto il momento di aprire un dibattito franco, scevro da ideologie pseudolibertarie che somigliano tanto al 18 politico di oltre quattro decenni fa.
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