Ieri sera ho invitato la mia ragazza a cena. Solita routine: chiamo la pizzeria vicina a casa mia, ordiniamo le nostre pizze preferite per le venti, andiamo a prenderle, torniamo, ci mettiamo a tavola, accendiamo la tv sul 5 mentre va in onda il tg.
C’è la Parodi, si proprio lei, che proprio in quel momento preciso mette l’aria greve di ordinanza, e comincia a parlare dell’ormai consueta violenza sulle donne, e anzi rilancia dicendo che forse è il caso di chiamare questa serie di donne uccise da uomini con il termine “femminicidio”. Si avete capito bene: “femminicidio”.
Ascoltiamo il servizio, ci rimettiamo a mangiare in silenzio, lei mi guarda e dice: “Non è che poi mi ucciderai anche te?” Con un tono di voce che mal celava un suo stato d’animo per me inedito, mai visto ne’ sentito, un mix di angoscia remota misto a ironia e incredulità.
La guardo e le dico “Ma sei rincoglionita?!”: il mio stato d’animo però lo conoscevo bene in quel momento, un misto di rabbia di chi è accusato senza aver compiuto il misfatto, condito da un gusto amaro che da lo stomaco era salito in gola strozzandomi leggermente la voce. L’amarezza di chi si sente sconfitto nella maniera piu infame e subdola, quella sconfitta davanti alla quale uno può solo commentare “Ebbravi! Avete vinto pezzi di merda schifosi, ora siete contenti? Siete soddisfatti di aver fatto finalmente centro, luridi infami?” Dammi tre parole: sospetto, angoscia, terrore. La strofa della loro canzone è quasi terminata, ora parte il ritornello del tormentone che tutti dovranno subire.