Autore Topic: Fischia se sei morto  (Letto 975 volte)

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Offline jorek

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Fischia se sei morto
« il: Aprile 06, 2012, 13:56:54 pm »
[Nota 1: la Curva del Male chiede scusa ai tifosi dell'Innsmouth per la seconda delusione consecutiva, ma questa andava fatta. Avremmo detto “per l'Europa” oppure “è l'Europa che lo esige”, ma purtroppo Mario Monti ha rubato i nostri slogan distorcendone il significato. Ma torneremo a parlare di svastiche, pornografia violenta e demoni sumeri, non temete.]

Pioveva sangue e tutti erano pazzi, tutti urlavano. Avevo una bottiglia di Johnnie Walker ed era tutto ciò che mi restava. Per quella notte ero a posto. Scolai il mio bicchiere e me ne versai un altro.
Fuori, le grida e la pioggia andavano avanti. Anche se stava andando tutto a puttane, continuavamo a fare le stesse identiche cose di sempre. Persino morire era routine.
L. era seduto lì a sorseggiare il suo whisky.
«Scusa se ti sono piombato qui a quest’ora.»
Era apparso con il buio. Come da manuale.
«Figurati.»
Si era presentato da me all’improvviso, dopo quasi due anni che non ci sentivamo. Mi aveva dato una pacca sulla pancia. Mi aveva detto: «Sei ingrassato, eh». Gli avevo detto: «No, sono solo gonfio».
Un cimitero di bottiglie vuote era lì a testimoniarlo.
«Avevi programmi?»
«Bermi un whisky.»
«E poi?»
«Berne un altro.»
L. era sparito dopo essersene andato a convivere con una stronza psicopatica – gran tette, culo sodo, una luce sinistra negli occhi e la solita tendenza a far terra bruciata di amicizie intorno alla sua preda. L’aveva incastrato. Ogni volta che lo incontravo, dimostrava dieci anni in più della volta precedente. E poi era diventato abbastanza noioso. Il suo vocabolario si era infarcito di parole che per me non avevano alcun significato: «lavoro», «prospettive», «vacanze», «arredamento».
«Invece tu?», mi chiedeva, quando mi incrociava al bar.
«Io cosa?»
«Come va?»
«Sto bevendo.»
«Intendo… lavori?»
«No.»
«Sei in cerca?»
«No.»
«E che hai intenzione di fare?»
«Sto bevendo.»
E se ne andava perplesso, vecchio di altri dieci anni. Una volta mica era così. Certe donne hanno la tendenza a strapparti via le palle, mettersele in borsetta e dartele in prestito quando servono a loro.
Adesso, però , L. sembrava diverso, sembrava tornato ai bei tempi. Mi versai un altro scotch, feci un gesto verso di lui con la bottiglia.
«No, grazie, sto a posto così.»
«Non penso possa ucciderti ormai.»
«No, davvero, sto a posto così.»
Accesi una sigaretta, presi una sorsata e tornai a guardare fisso davanti a me. La cucina faceva schifo, come la vita, la morte, i tulipani. Le piastrelle erano unte, puzzavano di olio e nicotina e abbandono. Se mai un giorno mi fossi trovato ad un colloquio di lavoro dalla parte giusta della scrivania, a selezionare, interrogare, decidere, giudicare, avrei detto soltanto: ok, ragazzo, fammi vedere la tua cucina. Sono lo specchio dell’anima, le cucine. Ma visto che ero abituato al lato del torto, e dalla parte giusta della scrivania non mi ci trovavo (non mi ci ero mai trovato, non mi ci sarei mai trovato), tanto valeva versarsi un altro JW in quella cucina lercia di disperazione, ascoltando il sangue che ticchettava sui vetri della finestra, le ragnatele di sangue che si estendevano, geometriche, perfette, per poi crollare, sfaldarsi sotto il nostro peso, il peso di noi mosconi intrappolati mentre tutti urlavano, tutti erano pazzi e urlavano.
L. andò avanti a raccontare. Accesi un’altra sigaretta e ascoltai.
«….E insomma mi lascia. Mi manda a cagare, torna dai suoi, ed io lì disperato a rompermi il culo, inizio a fare il doppio lavoro, rinuncio a dormire, perché adesso affitto e cazzi vari dovevo sobbarcarmeli io, da solo, che mica potevo prendermi un paio di coinquilini, mica avevo vent’anni, cazzo, e l’ultima cosa che mi serviva erano studenti che tornavano ubriachi la notte e iniziavano a cucinarsi gli spaghetti.»
«Li odio, quei piccoli bastardi.»
«Però da una parte faticare così aiutava, eh… Almeno ero troppo impegnato a pensare al lavoro e ai conti da pagare per affliggermi per lei…»
«Ehi, posso dirtelo senza che ti offendi?»
«Vai.»
«Quella tizia è una maledetta figlia di puttana psicotica.»
«Lo so, ma era la mia maledetta figlia di puttana psicotica, capisci?»
«Sì. Purtroppo sì.»
«Quand’è così è un casino.»
«Guarda, dammi retta… uno non dovrebbe mai scoparsi una sopra i 30. O meglio, può scoparsela, ma poi chiude lì. Portano solo guai.»
«Anche la ragazzine portano guai.»
«Sì ma portano guai alla Elmore Leonard, non alla Pedro Almodovar. Sicuro non bevi?»
«No, vai tu.»
Andai io.
«Insomma, dopo due mesi così, mi chiama, si scusa, dice che vuole tornare. Ok. E torna. Parliamo, discutiamo, ci mettiamo a piangere, scopiamo, e avanti così, tutta la notte. Sai com’è, no?»
«Sì. Purtroppo sì.»
«Dopo un po’ andava tutto bene, non mi stavo più spaccando il culo a quel modo e lei aveva parlato con lo zio che gestiva non so che cazzo di agenzia, e magari riusciva a farmi avere un posto di guardia giurata, dice pagato bene.»
«Uhm.»
«Sì, lo so che odi le guardie.»
«No, non odio le guardie, non ho niente contro le guardie. Però, se non fosse per gente come loro, potrei farmi qualche banca e vivere sereno.»
«Vabè, ad ogni modo, lei aveva ripreso possesso della casa, ed una sera tornai e mi disse “c’è un nuovo arrivo”. Io: “eh?”. Lei: “è in arrivo un cucciolo”.»
«Ecco, quelli sì che li odio, quei ruffiani, bastardi, mangiamerda, analfabeti.»
«Idem. Infatti mi incazzo di brutto, inizio a dirle: “oltre a cagare e impelare costano un sacco di soldi e bisogna stargli dietro, che cazzo ti dice il cervello?”. E lei: “sto parlando di nostro figlio, coglione!”»
«Sicuro sicuro non vuoi un altro whisky?» gli chiesi, versandomi un bel bicchiere. L. scosse la testa.
«Ero padre. Sai come ci si sente?»
«No.»
E non me ne fregava davvero un cazzo, di saperlo. C’erano parecchie cose che non andavano, nel mondo, e la peggiore, per me, ero io. Pensa a moltiplicarmi. Pensa un altro coglione con il mio nome ed il mio sangue. Per me tutto, tutto quello che mi circondava, non era nulla di più che una sitcom. La gente, tipo L., entrava dalla porta, scattavano risate preregistrate, applausi preregistrati, poi la sigla.
«Qual è il tuo incubo peggiore?»
«Tutto come adesso, ma senza scotch.»
Una sitcom di mostri. Una sitcom dell’orrore. Il sangue fuori. Le piastrelle unte. Le urla.
«…E vabè, le cose erano andate a puttane. Quel posto di guardia giurata era sfumato, lei era incinta e non trovava lavoro, i suoi ci passavano qualcosina, ma poca roba, e mia madre… beh, a lei poraccia al massimo avrei dovuto passare qualcosa io.»
«E via coi debiti.»
«Già. A te come va con quelli del recupero?»
«Abbaiano ma non mordono. Per ora.»
«Però sai come si paga un debito.»
«Sì. Facendone un altro.»
«’Fanculo, versamene uno dai. Tanto dubito dovrò guidare.»
«Adesso ragioni, cazzo.»
Restammo per un po’ zitti a sorseggiare il nostro JW, con il sangue grumoso che si arrampicava sui vetri, ascoltando le grida giù in strada, urla strazianti, disarticolate, senza senso, corde vocali che si laceravano, ugole che esplodevano in altro sangue grumoso.
«Ma perché urlano tutti?», mi chiese L. dopo un po’.
«Beh,» risposi, «è un quartiere dormitorio.»
«E allora?»
«Allora qui non c’è un cazzo. Negozi, locali, nulla. Non c’è un cazzo da fare e la gente allora urla.»
«E non fanno altro?»
«Beh, ogni tanto si ammazzano. Sono palazzoni, qui, ogni tanto ti affacci e ti passa davanti qualcuno che s’è buttato giù.»
«E poi?»
«Fischiano.»
«Fischiano.»
«Sì. Ascolta.»
Tendemmo l’orecchio.
«Vero, c’è qualcuno che sta fischiando.»
Annuii.
«E tu perché non lo fai?», chiese L.
«Cosa?»
«Perché non fischi?»
«Non so fischiare.»
«Perché non urli?»
«Perché io bevo.»
«Ma non diventi matto a vivere così?»
«Sì.»
«Dovresti provare. Esercitarti, non so.»
«Ci ho provato, ci ho provato, ci ho provato un mucchio di volte. Non mi viene, è inutile.»
L. si alzò ed andò ad aprire la finestra. Il rumore fece irruzione in cucina, più stridulo, più straziante. Qualcuno sembrava ragliare. La pioggia era diventata una tempesta, quasi. Qui con il sangue impazziscono di più. Sembrano squali. Diventano più feroci.
L. si affacciò alla finestra e lanciò un fischio, un fischio acuto e prolungato. Poi rimise dentro la testa, gocciolando sangue ovunque.
«Sì, cazzo. È geniale. Ci si sente meglio.»
«Prova ad urlare.»
L. rimise fuori la testa. Aspirò. Ne uscì un suono fioco. Un rantolo.
«Non, ci riesco, cazzo. Vuoi provare tu?»
«No. Vuoi un altro goccio?»
«No.»
«Ok. Tu fischia, io bevo.»
«Ok.»
L. riprese a fischiare, sempre più forte. Il JW era agli sgoccioli. La pioggia era così violenta che mezza cucina si era infradiciata. Sembrava un mattatoio. L’aria puzzava di carogna. La puzza del sangue. Abbiamo pisciatoi per vene, cessi per arterie.
L. si ritrasse, imbrattato come un maiale sgozzato, chiuse la finestra e tornò a sedersi.
«Cristo, è favoloso, perché cazzo nessuno ci ha mai pensato prima?»
«Avranno avuto altro per la testa. Il lavoro, sai. Le rate del televisore. Le ragazzine in webcam.»
«Posso trasferirmi qui?»
«No.»
«Perché?»
«Sarebbe troppo per me. Cerca di capirmi.»
«Ok. Però allora è meglio che inizio ad andare. Sta per farsi giorno.»
«Come da manuale, eh?»
«Come da manuale, sì.»
Brindammo a nulla in particolare e lo accompagnai alla porta.
«Posso tornare a trovarti?»
«Quando vuoi, amico mio. Passa pure attraverso la porta. Ma se mi becchi a scopare sparisci, eh.»
«Grazie.»
«Mi spiace che sia finita così, L.»
L. sorrise. Un sorriso triste.
«Se riesci a partire, fai buon viaggio.»
«Partire per dove?»
Ci abbracciammo e se ne andò. Tornai in cucina, c’era ancora il giornale della settimana scorsa, già ingiallito, con il trafiletto su L., nella cronaca di Roma. L’avevano trovato seduto in auto, un tubo bloccato dal vetro del finestrino e l’abitacolo saturo di monossido di carbonio. Quello che il giornalista non aveva scritto, quello che non poteva sapere, era che L. non aveva ancora finito di pagare quell’auto.
Mi versai l’ultimo bicchiere, lo scolai d’un fiato, m’infilai la giacca, presi le chiavi, e scesi in strada ad urlare.

[Nota 2: per chi non l'avesse capito, questo breve racconto parla di Equitalia.]

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