Il problema del sacrificio è trattato da Friedrich Nietzsche (1844-1900) soprattutto in due testi: Al di là del bene e del male (1886) e Genealogia della morale (1887). Al cuore di quest’ultimo sta la messa in discussione della morale attraverso un’analisi della sua origine; attraverso tale analisi, Nietzsche addiviene alla scoperta che la morale ha un’origine psicologica. Nella prefazione all’opera, egli ci dice che quello che stiamo per leggere è uno scritto polemico, che mette alla berlina i pregiudizi morali. Il filosofo tedesco precisa anche che non è possibile cercare l’origine del male nel mondo dei fenomeni: tesi che sembra contrastare con la negazione nietzscheana dell’esistenza della kantiana “cosa in sé”. Nella misura in cui bisogna condurre un’analisi che esuli dal “mondo fenomenico”, l’unica strada percorribile diventa il tentativo di cercare l’origine dei pregiudizi morali nella psicologia. Alla domanda centrale dell’opera – come si è giunti all’invenzione dei pregiudizi morali? – Nietzsche prova a dare una risposta che tenga conto delle riflessioni schopenhaueriane, ma ben presto si accorge che, seguendo Schopenhauer, si precipita nel nulla, nella volontà che si rivolta contro se stessa. La distinzione capitale fissata da Nietzsche è quella tra la morale dei signori e quella dei sacerdoti: questi ultimi, provando invidia di fronte alla superiorità dei signori, elaborano una tavola di valori opposti, anteponendo al corpo lo spirito, al sesso la castità, alla forza l’umiltà. Storicamente, questo rovesciamento della tavola dei valori avviene con il popolo sacerdotale per eccellenza: gli ebrei. Quella che si attua, nota Nietzsche, è una vera e propria congiura contro la vita, nella misura in cui tutti gli istinti che non si scaricano all’esterno si rivolgono all’interno. Nasce in questo modo uno spirito di vendetta contro il prossimo. E gli schiavi non possono che diventare alleati dei sacerdoti e della loro lotta contro i signori: con la loro “morale del risentimento”, i sacerdoti fanno del sacrificio il loro punto di forza. Se il signore cerca il suo opposto soltanto per dire “sì” a se stesso con gioia accresciuta, i sacerdoti creano una morale immaginaria e priva di fondamenti dalla quale rampollano i pregiudizi morali che si sono trascinati fino a oggi. Proprio perché ha in sé un’infinita grandezza e pienezza d’essere, il signore non prova risentimento; al contrario, perché debole e povero d’esssere, il sacerdote è per sua natura traboccante di risentimento. Chi è malvagio secondo la morale del risentimento, è buono secondo quella dei signori; e viceversa. Per chiarire questo punto, Nietzsche porta l’esempio omerico di Odisseo e Tersite: secondo la prospettiva dei signori, il buono è Odisseo; per quella dei sacerdoti, Tersite. La concezione assolutamente atea di Schopenhauer, nella misura in cui riconosce una colpevolezza innata nell’uomo, finisce per avvicinarsi incautamente alla morale del risentimento: in opposizione alla quale, Nietzsche precisa che il fatto che la vita sia indubitabilmente sofferenza non implica che ci sia una colpa da espiare. Al contrario, che la vita sia sofferenza è un dato che si impone da sé e che, di conseguenza, si giustifica da sé: l’invenzione del “peccato originale” è soltanto un assurdo espediente per cercare di dare un senso a quella sofferenza, tenendola sotto controllo. In questa prospettiva, è esattamente dal desiderio di avere un mondo in cui sia assente il dolore che sorge la metafisica: il nostro mondo, signoreggiato dalla sofferenza, diventa così un’anticamera ad un altro mondo superiore, che si identifica dapprima nell’iperuranico mondo delle Idee di cui dice Platone, poi nel Paradiso cristiano. Ciò non toglie che il cristianesimo abbia avuto un senso, nella misura in cui ha permesso di evitare gli scogli del nichilismo e del buddismo: e tuttavia, anziché liberare dalla sofferenza, ha fatto della volontà una volontà del nulla, in quanto il mondo voluto (l’Iperuranio, il Paradiso) non esiste. Ad avviso di Nietzsche, se è un dato di fatto che la sofferenza pertiene all’esistenza e se l’uomo aspira all’esistenza nella sua forma più alta, allora ne segue che l’uomo aspirerà alla sofferenza più grande. In questa maniera, egli si libera dai vincoli della metafisica e accetta la vita così com’è, nella sua mancanza di senso: è esattamente in questo che risiede il “nichilismo attivo”. Ogni concezione che voglia rimuovere il dolore, fa venire meno la volontà e, con essa, la vita. E nella misura in cui mostra l’inesistenza dell’altro mondo, l’Aticristo è il vincitore di Dio e del nulla. La lotta avviata da Nietzsche contro i metafisici si declina anche come lotta agli ideali ascetici che essi fanno valere; perfino la scienza, che vive nell’illusione di essere apartitica, vive, al pari della religione, in un ideale ascetico, giacché difende l’esistenza di una verità oggettiva. Contro la metafisica, la religione e la scienza l’unico antidoto possibile è l’arte, nella quale “la menzogna si santifica” senza celare presunte verità oggettive. Proprio perché creatrice di menzogne, essa è una forma di nichilismo attivo. Ma nella condizione in cui ci troviamo “l’uomo preferisce ancora volere il nulla piuttosto che non volere”. Così si chiude la Genealogia della morale. Con questi presupposti, Nietzsche può liquidare il sacrificio tradizionale come un absurdum: esso non è se non un’estremizzazione di quella debolezza che il risentimento reca con sé; a tal punto che “la fede cristiana è fin da principio sacrificio” (Al di là del bene e del male, af. 47). Sicché alla base del sacrificio stanno la morale degli schiavi e l’egoismo ebraico: scaturito dalla paura, esso infetta ogni cosa, portando l’uomo a perdere fiducia nel proprio volere e a diventare un “animale da gregge”. Va tuttavia precisato che l’obiettivo polemico di Nietzsche è sempre la religione cristiana, e mai la figura di Cristo: addirittura egli può sostenere che “non c’è nulla di più contrario al Vangelo del sacrificio”. Dall’iniziale “rinuncia al sacrificio”, il cristianesimo è storicamente passato al “sacrificio della rinuncia”. In particolare, è stato Paolo da Tarso a corrompere il cristianesimo, imparentandolo indebitamente col platonismo: certo, si trattava di un matrimonio inevitabile, giacché essi erano accomunati dallo spostamento della verità da questo all’altro mondo. Sicché Nietzsche non si schiera contro il sacrificio in quanto tale, bensì contro quello cristiano: sono stati infatti i cristiani a far degenerare il vero sacrificio, che implicava sempre una dimensione cruenta. Addirittura il filosofo tedesco sostiene apertis verbis che l’umanità ha sempre conosciuto il sacrificio, che da sempre è stato fatto nascere dal “forte e divino egoismo” umano, ossia dall’autoaffermazione di sé e dall’aspirazione a signoreggiare. Con la degenerazione cristiana, il sacrificio si è trasformato in abbandono di sé, in rinuncia alla vita, in manifestazione di timore. In opposizione a quello cristiano, Nietzsche esalta il sacrificio dei Greci, funzionale alla propria autoaffermazione. Godendo di una sovrabbondanza di potenza, l’uomo forte, il signore, affinché essa non si disperda, la canalizza nell’arte e nel sacrificio. Come è accaduto storicamente che l’insegnamento di Cristo è stato assunto a sostegno del modo generato dei Cristiani di intendere il sacrificio? Secondo Nietzsche, ciò è potuto avvenire in forza di un’ambiguità perversa, di un fraintendimento fatale: i Cristiani infatti hanno subdolamente capovolto l’originaria saggezza di Cristo, del quale Nietzsche ha grande stima. In particolare, è stata l’interpretazione paolina del sacrificio a distorcere il messaggio cristico, adattandolo alla morale dei sacerdoti e del gregge. Infatti Paolo non ha fatto altro che costruire una religione ad usum delle masse, e le stesse persecuzioni feroci a cui andarono incontro i Cristiani non fecero che accrescere la loro aggressività, a tal punto che, ad avviso di Nietzsche, si può dire che il trionfo cristiano fu dovuto ai suoi avversari. Impostosi, il cristianesimo ha fatto valere una concezione distorta e anti-greca del sacrificio, facendolo poggiare su una carità identificantesi con l’amore del fallimento e del masochistico annullamento di sé; ma questa, scrive Nietzsche, è la negazione del sacrificio. Influenzato dalla tradizione positivistica e, soprattutto, darwiniana che ha alle spalle, il filosofo tedesco sostiene che i Cristiani hanno fatto sì che il più adatto alla sopravvivenza fosse non già il più forte, bensì il più debole. In questa cornice, il sacrificio diventa per i Cristiani l’alibi per non sacrificarsi e per camuffare il risentimento che innerva le loro coscienze. In opposizione alla concezione cristiana, l’Übermensch di cui scrive Nietzsche è chi sacrifica se stesso e gli altri senza risentimento e per il dovere che gli viene soltanto dalla sua natura, nella consapevolezza che il dolore non ha alcunché di redentivo o di salvifico. Detto altrimenti, l’Oltreuomo non compie il sacrificio per spirito di risentimento o per vendetta, ma per il bene dell’umanità, alla luce del fatto che – secondo Niezsche – individuo e specie non possono essere scissi. Il sacrificio come lo intende il filosofo è l’esatto contrario di quello cristiano: lungi dall’essere un annullamento di sé, è un proprio autopotenziamento, una piena e totale attuazione della propria potenza e del proprio essere. Nietzsche porta l’esempio di Dioniso vittima dei Titani, che vengono incitati dal dio a fare di lui la vittima del linciaggio con squartamento tipico dei riti delle Baccanti. Nella misura in cui “la profonda sofferenza rende nobili” (Al di là del bene e del male, af. 270), potenziando e rinvigorendo, oltreché separando dagli altri uomini, l’Oltreuomo più di ogni altro è chiamato al sacrificio, che viene a configurarsi come un gesto di ribellione e di distacco dal gregge. L’Oltreuomo è “egregio”, secondo l’etimo latino, perché si allontana “ex gregis”, e si allontana proprio in forza del sacrificio; con esso assume, mediante la sofferenza, la responsabilità di essere superiore rispetto agli uomini comuni. Ma oltre a sacrificarsi emergendo dal gregge, l’Oltreuomo, in un mondo in cui la tavola dei valori è rovesciata, è sacrificato dal gregge. Egli deve superare una duplice tentazione: a) evitare di concepirsi come una totalità (deve ricordarsi di essere solo una parte); b) abdicare alla propria grandezza, rinchiudendosi in un ascetismo nocivo. La seconda è esattamente la tentazione avvertita da Zarathustra. Consapevole della propria immensa responsabilità, egli la assume nella sua terribile totalità: nei Frammenti postumi, Nietzsche adduce l’esempio di Giulio Cesare, Napoleone e altri “innumerevoli individui sacrificati ai pochi, per renderli possibili”. L’Oltreuomo, lungi dall’essere esente dal sacrificio, ad esso è continuamente chiamato: ma non si tratta di un sacrificio dell’immanente in favore del trascendente; è piuttosto una rinuncia a una parte di sé per aumentarsi, per essere di più. Ma perché questo sacrificio sia possibile, occorre prendere atto della “morte di Dio”, ossia del tramonto di quell’aldilà delle verità metafisiche invalso col platonismo ed ereditato dal cristianesimo. Nella scala della crudeltà religiosa, tre sono per Nietzsche i pioli fondamentali: si sacrifica l’uomo; poi i suoi istinti; infine Dio stesso. Così, dopo che sono tramontate le grandi verità metafisiche che garantivano un senso a questo mondo, è l’Oltreuomo a conferirglielo: il suo motto è “così è, e così volli che fosse”. Occorre però ricordare che per Nietzsche l’Oltreuomo è una mèta, e non una realtà già esistente: l’uomo deve cioè superarsi in una nuova e più alta umanità. Nei Sentieri interrotti, Martin Heidegger scrive che il fondamento della filosofia nietzscheana è ancora la metafisica: infatti i valori, lungi dall’essere annientati, sono dal filosofo tedesco semplicemente capovolti; l’essere stesso, nella sua prospettiva, diventa un valore, giacché è l’inaggirabile condizione del dispiegamento della volontà di potenza (Wille zur Macht). E con l’essere, anche il sacrificio torna ad essere un valore, permettendo il trionfo all’eccellenza umana.
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