Autore Topic: Ordini di protezione contro gli abusi familiari: questioni di incostituzionalità  (Letto 1727 volte)

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Offline Cassiodoro

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15.12.2008
Ordini di protezione contro gli abusi familiari: questioni di incostituzionalità
Stiamo per parlare di una normativa che fin dalla sua approvazione – avvenuta nell’aprile 2001, tra l’altro a Camere già sciolte, su proposta del secondo governo di Giuliano Amato, mentre era Ministro delle Pari Opportunità la comunista Katia Bellillo – è apparsa fortemente condizionata da pregiudizi ideologici e sessisti.
Purtroppo, come era ampiamente prevedibile, nel corso degli ultimi anni tali pregiudizi (che trasparivano anche dal resoconto stenografico della discussione generale avvenuta in Parlamento) sono tutti puntualmente riaffiorati nella giurisprudenza di merito, per colpa di magistrati troppo timorosi di apparire non abbastanza attenti all’esigenza sociale di reprimere il fenomeno della violenza sulle donne.
Si tratta dell’intero istituto giuridico dell’ordine di protezione contro gli abusi familiari, introdotto dalla legge 4 aprile 2001, n. 154. Per il modo stesso con il quale è stato concepito dal legislatore, questo nuovo strumento ha spalancato le porte a decisioni profondamente ingiuste e vessatorie, soprattutto nei confronti dei mariti e dei conviventi di sesso maschile.
Nei confronti di questi ultimi, infatti, troppo spesso sono stati adottati provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare del tutto privi di adeguato supporto probatorio, e comunque sproporzionati rispetto alle esigenze di protezione che si volevano raggiungere. Il problema, che si sta trasformando in una vera e propria emergenza umanitaria, è che – a fronte di pochi casi realmente fondati di intollerabile violenza familiare – la normativa sugli ordini di protezione si è dimostrata uno strumento tanto invasivo quanto poco garantista, e per questo motivo troppo facilmente manovrabile da parte di avvocati senza scrupoli.
Molti di questi, nella prassi, lo utilizzano unicamente per “mettere nell’angolo” la controparte maschile, con la minaccia di poterla facilmente espellere da casa sua per almeno sei mesi, al solo fine di massimizzare il profitto ottenibile nelle trattative di separazione, a favore della coniuge da essi assistita.
Proporremo dunque qui di seguito varie questioni di incostituzionalità delle suddette norme, fondate sulla nostra esperienza professionale, nella speranza che prima o poi esse verranno portate all’attenzione della Consulta.
E’ indubbio che i nuovi articoli 342 bis e ter cod. civ. abbiano introdotto nel nostro ordinamento la possibilità di comminare ai danni dei cittadini un provvedimento assai limitativo della loro libertà personale, così come del loro diritto di proprietà e del loro status di coniuge e di genitore. Oggi, infatti, qualunque coniuge o convivente more uxorio può essere allontanato da casa propria per sei mesi e anche più, indipendentemente dalla sussistenza di alternative abitative di qualche tipo, non sulla base della commissione di fatti illeciti specifici, ma soltanto di una sua generica “condotta”.
Quest’ultima, a sua volta, non deve essere accertata sulla base di prove tipiche, né di un dibattimento dotato delle garanzie previste in un processo ordinario, civile o penale. E’ sufficiente che il giudice si convinca che tale condotta sia stata lesiva di alcuni valori morali, tanto importanti quanto genericamente descritti, quali “l’integrità fisica o morale, ovvero la libertà dell’altro coniuge o convivente”.
Non occorre nemmeno che il pregiudizio arrecato al partner derivi da fatti che in sé costituiscono un reato contro la persona: anche se la maggior parte dei casi di merito presentano ipotesi di lesione della “integrità fisica” di uno degli interessati, a ben vedere si tratta di una condizione non necessaria. Nella prassi, questa sproporzione tra le fattispecie punibili e l’oggettiva gravità delle situazioni ha fatto sì che un’isolata querela per ingiurie o minacce, ovvero per percosse di lievissima entità verificatesi nel contesto di una episodica lite coniugale, siano diventati indizi più che sufficienti a garantire l'accoglimento del ricorso e quindi l’espulsione semestrale del “reo” da casa propria. Con tutto quello che questo comporta, dal punto di vista dell’equilibrio delle posizioni processuali, nel frequente caso che l’ordine di protezione preluda all’avvio di una causa per separazione coniugale o per affidamento dei figli, o si inserisca nel contesto della lite.
Come abbiamo appena detto, per ottenere un ordine di protezione può essere ampiamente sufficiente la lesione dell’integrità “morale” ovvero della “libertà” della pretesa vittima, mentre d’altro canto la legge 6 novembre 2003, n. 304 ha espressamente abolito la riserva del giudizio penale nelle ipotesi di reato procedibile d’ufficio, che pure originariamente era stata introdotta nel testo del nuovo art. 342 bis cod. civ.. Pertanto, allo stato della legislazione, la “condotta” pregiudizievole che deve essere delibata dal giudice civile può consistere anche in comportamenti che non integrano alcuna figura di reato. Anche perché, a ben vedere, altrimenti gli stessi potrebbero rientrare nell’analogo istituto della “misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare”, affidato dall’art. 1 della medesima legge n. 154 del 2001 al giudice del procedimento penale, su richiesta del Pubblico Ministero, nell’interesse della persona offesa.
Vale a dire che le “condotte” pregiudizievoli nei confronti di un familiare, che oggi possono venire punite con un ordine urgente di allontanamento, da una parte possono consistere in fattispecie assai generiche, e cioè in comportamenti ed atteggiamenti che non costituiscono nemmeno reato, purché appaiano pregiudizievoli di valori di puro principio come la “libertà” e “l’integrità morale”.
Nello stesso tempo, dall’altra parte, le suddette “condotte” possono consistere in evidenti ipotesi di reato (percosse, lesioni, minacce), che però non devono venire minimamente accertate come tali dal giudice civile, con la conseguente mancanza di garanzie difensive per l’incolpato.
A causa dell’estrema genericità ed ampiezza della descrizione dell’art. 342 bis cod. civ., il giudice civile può dunque delibare i casi che vengono a lui sottoposti con una discrezionalità amplissima, e arrivare di conseguenza a provvedimenti tanto gravi per la libertà individuale, quanto genericamente motivati.
In altre parole, dietro lo schermo della provvisorietà e della natura non penalistica del nuovo istituto, mediante i nuovi artt. 342 bis e ter cod. civ., così come dell’art. 736 bis c.p.c., si è affidata al giudice civile monocratico – nell’ambito di un procedimento sommario assai rapido e nemmeno impugnabile in appello – la possibilità di adottare, completamente al di fuori delle usuali garanzie per l’incolpato, provvedimenti non meno invasivi di una condanna penale.
Anzi, in molti casi tali provvedimenti si rivelano di fatto assai più gravi di condanne alla reclusione, dal momento che, a differenza di queste ultime, gli ordini di protezione sono per legge immediatamente esecutivi, con scarse possibilità di riesame e di impugnazione, e quindi nella prassi privano l’incolpato da un giorno all’altro del suo fondamentale diritto alla casa, pregiudicando nel contempo il suo reddito, senza che sia prevista in suo favore la possibilità di accedere ad alcuna misura alternativa.
Come ripetiamo, le fattispecie punite in questo modo sommario sono state descritte dal legislatore assai più genericamente, rispetto a quelle che avrebbero potuto essere contenute in una classica norma penale “in bianco”. Nel contempo, e questo sembra essere l’altro corno del dilemma – più specificamente processuale – al giudice civile è stata data la possibilità di intervenire in modo delibatorio su fattispecie che chiaramente costituirebbero reato, eppure non devono essere minimamente accertate come tali.
Cominciamo dunque ad affrontare la prima parte del problema: che cosa si deve intendere quando si parla di “condotta” che arreca pregiudizio alla “integrità morale” del coniuge o del convivente, per non parlare del pregiudizio alla sua “libertà”? In che cosa devono consistere le condotte prevaricatorie di un partner verso l’altro, invocabili davanti al giudice monocratico del Tribunale civile, e fino a che punto è necessario verificare i fatti specifici in cui tali “condotte” si sarebbero concretizzate?
Abbiamo visto che nella norma si parla apertamente di “condotta”, e quindi di generici comportamenti anziché di specifici fatti. Dunque, è necessario – o quantomeno opportuno – che il giudice operi un confronto con i contrapposti comportamenti dell’altro coniuge o convivente, onde evitare che l’ordine di allontanamento per pregiudizio alla “libertà od integrità morale” dell’altro si trasformi in una mera presa di posizione a carattere moralistico, che oltretutto finisce spesso per fornire al ricorrente un’indebito vantaggio processuale nel corso della lite che lo contrappone al partner?
Per dirla altrimenti, fino a che punto deve arrivare il pregiudizio ai suddescritti valori morali – nell’ottica di un accettabile bilanciamento di diritti costituzionali contrapposti – affinché il giudice possa disporre una compressione così rilevante della libertà del presunto responsabile, al punto di privarlo per sei mesi, e talvolta anche oltre, del fondamentale diritto all’abitazione nonché, in molti casi, dell’esercizio della sua genitorialità?
Tali domande a nostro parere non potranno rimanere ignorate per sempre da parte della Consulta, che prima o poi dovrà anche chiedersi se sia stato ammissibile affidare un provvedimento così rilevante per la libertà personale dei cittadini ad un giudizio meramente delibatorio, nemmeno sottoponibile al giudizio collegiale del Tribunale (se non in sede di reclamo). Simili poteri per il giudice civile monocratico, nell’esperienza di questi anni, si sono infatti dimostrati davvero troppo discrezionali.
Per questi motivi, riteniamo che gli articoli 342 bis e ter del codice civile siano fortemente sospetti di incostituzionalità, rispetto a tutti o quantomeno a taluni dei seguenti articoli della Costituzione, quali l’art. 2 (diritti inviolabili dell’uomo, tra i quali rientra quello alla sicurezza personale, alla proprietà e alla casa, alla non arbitrarietà delle accuse in giudizio), nonché l’art. 3 (uguaglianza e pari dignità sociale), l’art. 23 (riserva di legge per le prestazioni personali e patrimoniali), l’art. 24 (diritto alla difesa in giudizio), l’art. 29 (diritti della famiglia e diritto all’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi), l’art. 30 (diritto e dovere ad educare i figli); l’art. 111 comma 2° (giusto processo, diritto al contraddittorio e alla parità tra le parti).
L’incostituzionalità ci pare sussistere quantomeno nella parte in cui l’articolo 342 bis prevede che la “condotta” in esame possa essere lesiva anche soltanto della “integrità morale” ovvero della “libertà” dell’altro coniuge e convivente, e/o nella parte in cui non prevede che tale condotta debba concretizzarsi in fatti specifici e accertati.
La questione ci appare fondata, quantomeno ai fini di una sentenza interpretativa della Corte, che imponga al giudice civile una valutazione meno apodittica e più “bilanciata” delle condotte lesive che gli possono venire sottoposte. Infatti, a nostro avviso, l’esigenza di protezione del coniuge o del convivente più debole (diciamo pure della donna, perché la natura sessista dell’esigenza sottesa alla norma è evidente ed innegabile) non può prevalere sempre e comunque sui diritti costituzionali dell’altro partner.
Al contrario, per rimanere nel quadro di uno Stato di diritto, deve pur sempre rimanere necessario che la “condotta” lesiva del familiare consista in fatti determinati, accertabili, e qualificati come illeciti dall’ordinamento. Quantomeno, qualora si ritenga di voler mantenere nella legge il generico riferimento alla “condotta”, alla “libertà” e alla “integrità morale” dell’altro coniuge o convivente, appare necessario che al giudice civile sia imposta una valutazione complessiva dei comportamenti di entrambi i partner, per verificare che non vi sia stata una reciprocità di comportamenti offensivi – come spesso accade nella prassi delle crisi familiari – tale da rendere ingiustificabile l’allontanamento di uno solo dei coniugi o conviventi, e cioè di fatto del solo marito.
Esiste inoltre, come accennato, un’altra questione più specificamente processuale, che rende non meno sospetta di incostituzionalità la normativa sugli ordini di protezione, particolarmente riguardo all’art. 736 bis del codice di procedura civile.
Vale la pena di ricordare che tutto il nostro sistema penale, come quello di ogni altro Stato di diritto, non è fondato soltanto sul principio di legalità nella determinazione dei fatti costituenti reato, ma anche da una serie di garanzie processuali – giudice terzo ed imparziale, habeas corpus, diritto alla difesa, esame delle prove in contraddittorio, ne bis in idem, impugnazione, ecc. –  riguardanti l’accertamento di tali fatti.
Non si vede, tuttavia, per quale motivo detti principi non debbano essere estesi anche a sanzioni formalmente non penali, ma che possono essere assai più invasive della libertà individuale e di altri diritti fondamentali, e che nella prassi vengono comminate per lo più a fronte di fattispecie che – specialmente a seguito della modifica operata sull’art. 342 bis cod. civ. dall’art. 1 della legge 6 novembre 2003, n. 304 – costituiscono comunque figure di reato. Non appare infatti ammissibile che uno dei due coniugi o conviventi venga sanzionato dal giudice civile per le medesime fattispecie che verranno giudicate dal magistrato penale, senza poter godere – nel contesto dell’”ordine di protezione” – delle garanzie procedimentali previste per i relativi capi di imputazione.
Inoltre, con l’entrata in vigore della legge di conversione n. 80 del 2005, che ha modificato il rito delle separazioni con i nuovi artt. 708 e 709 bis c.p.c., si è prodotta anche una disparità intollerabile tra il procedimento ex art. 736 bis c.p.c. e quello per separazione giudiziale, al quale peraltro il primo fa espresso riferimento. Infatti, ricordiamo che l’art. 8, comma secondo, della legge n. 154 del 2001 ha espressamente previsto che i provvedimenti presidenziali di cui all’artt. 708 c.p.c. rendano inefficaci i decreti di ordine di protezione, che peraltro possono essere adottati anche nel corso del giudizio di separazione.
Ora, è indubbio che – grazie a riforme ormai non più recenti –  i provvedimenti presidenziali ex art. 708 c.p.c. sono divenuti reclamabili in Corte d’Appello, mentre le sentenze non definitive sulla separazione coniugale ex art. 709 bis c.p.c. sono divenute suscettibili di appello immediato. A ciò si aggiunga che anche i procedimenti ex art. 710 cp.c. sulla modifica delle condizioni della separazione sono reclamabili in Corte d’Appello ex art. 739 c.p.c., mentre i provvedimenti di soluzione delle controversie sulle modalità di affidamento dei figli minori (che di certo vengono ad essere interessati pesantemente dalla eventuale ricorrenza di un ordine di protezione, se non altro per la possibilità che ad esso si accompagni un ordine di pagamento di assegni periodici a favore dei conviventi privi di mezzi), sono pure divenuti impugnabili “nei modi ordinari”, ai sensi del nuovo art. 709 ter c.p.c., introdotto dalla legge n. 54 del 2006 sul’affidamento condiviso.
Al contrario, l’art. 736 bis, penultimo comma, c.p.c. prevede che il Tribunale decida in Camera di Consiglio con “decreto non impugnabile” sui reclami che vengono proposti contro i decreti di accoglimento o rigetto delle istanze di ordine di protezione. Ne consegue una evidente disparità processuale, che potrebbe portare i coniugi interessati da un procedimento per ordine di protezione a ricorrere per la separazione giudiziale, soltanto per ottenere in sede di provvedimenti ex artt. 708 ovvero 710 ovvero 709 ter c.p.c. una rivalutazione delle decisioni adottate nel primo giudizio sommario.
Questi ultimi tre procedimenti, infatti, offrono alle parti le maggiori garanzie procedimentali (Camera di Consiglio, reclamabilità in Corte d’Appello, impugnabilità nei modi ordinari), che al contrario vengono negate dal procedimento ex art. 736 bis c.p.c..
Si potrebbe ritenere che la diversità di garanzie processuali dipenda dalla maggiore delicatezza dei procedimenti sulla separazione coniugale e l’affidamento dei figli minori. Ma appunto, il fatto di non avere previsto le garanzie della Camera di Consiglio e della reclamabilità alla Corte d’Appello anche per i coniugi non separati che si trovino in conflitto per la richiesta di un ordine di protezione, finisce per favorire la separazione tra gli stessi piuttosto che una possibile riconciliazione.
Se si considera che, nonostante tutto, il nostro ordinamento dovrebbe essere ispirato al favor matrimonii, oltre che alla tutela della famiglia, all’uguaglianza dei coniugi davanti alla legge, al diritto di difesa e al giusto processo anche nei rapporti endofamiliari, la violazione degli artt. 2, 3, 24, 29, 30, nonché dell’art. 111 comma 2° e 7°, della Costituzione anche in questo caso appare evidente.
Purtroppo, la pratica professionale ci ha portati a doverci confrontare con ordini di allontanamento emessi dal giudice civile in modo assai sommario, sulla base di denunce unilaterali del coniuge che non ci si è nemmeno dati la pena di verificare. Addirittura, ci è capitato di vedere provvedimenti di allontanamento motivati sulla base di singole querele, sporte da uno dei coniugi a notevole distanza di tempo dal fatto, per episodi isolati di violenza familiare comunque assai leggeri (che hanno portato a prognosi del tutto ridicole).
Tutto questo, talvolta, sulla base dell’assunto esplicito che le singole querele di una moglie ”se inveritiere, esporrebbero la ricorrente a conseguenze penali”: è evidente l’abnormità giuridica di un simile ragionamento, anche perché di fatto equivale a sostenere che la parola di una donna asseritamente maltrattata goda ormai di una sorta di fede privilegiata davanti ai giudici monocratici.
Con la nostra denuncia del problema, non intendiamo ovviamente sostenere che i comportamenti lesivi dell’integrità fisica del coniuge o del convivente, che spesso si verificano nel contesto delle crisi familiari conflittuali, siano legittimi e tantomeno giustificati.
Tuttavia, d’altro canto, si vuole segnalare che il pregiudizio sociale nei confronti del partner maschio, che in quanto tale si assume affetto da una sorta di irredimibile propensione alla violenza, che lo rende già in partenza come un soggetto sospetto e problematico persino agli occhi del legislatore, sta portando nella prassi giudiziaria dei nostri Tribunali ad esiti davvero intollerabili.
Anche perché, come si ripete, da tempo si è potuto osservare che la denuncia e il ricorso per ordine di protezione, nel contesto di crisi familiari molto conflittuali, è diventato quasi una parte integrante del “protocollo di intervento” di avvocati senza scrupoli, che ne hanno fatto parte integrante della loro strategia legale. Il comportamento condiscendente di certi magistrati, ma soprattutto l’eccessiva discrezionalità a loro affidata dal legislatore, ha favorito il diffondersi di certi abusi. Purtroppo, temiamo che ci vorrà del tempo affinché vi si possa porre rimedio, a causa della persistenza di un forte pregiudizio sessista e politically correct che impedisce ai più di rendersi conto di certi squilibri (M.F. 15.12.08)
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