Autore Topic: origini del femminismo  (Letto 1099 volte)

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Offline ilmarmocchio

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origini del femminismo
« il: Dicembre 25, 2013, 10:21:18 am »
http://www.url.it/donnestoria/novita/rasstampsenecafalls.htm

Donne e conoscenza storica                                

 in Il Manifesto 23-7-2002

La tempesta in una tazza da tè
Luglio 1848. A Seneca Falls, negli Stati uniti, quattro donne riunite davanti a una tazza di té, giudicano che la pazienza femminile sia arrivata a un limite. E scrivono un documento destinato a diventare uno dei pilastri del femminismo americano. E ad anticipare un dibattito che dura ormai da oltre un secolo, quello che contrappone la richiesta per le donne di eguali diritti di cittadinanza alla valorizzazione della differenza femminile. La «Dichiarazione dei sentimenti» viene ora pubblicato, insieme al resoconto della successiva Convenzione di Rochester, in un volume curato da Raffella Baritono per La Rosa Editrice
DIANA SARTORI

 
   


Stagione calda quella del 1848, il fuoco della libertà aveva fatto salire la temperatura politica fino al punto critico un po' dappertutto incendiando l'Europa. Ma doveva fare caldo anche in quel salotto borghese della cittadina di Waterloo N.Y., dove, prendendo il loro tè, quattro virtuose signore, giudicando che la pazienza femminile fosse anch'essa giunta ad un punto critico, decisero di convocare una convenzione che ponesse all'ordine del giorno i diritti delle donne. Decisione rovente, caldo luglio americano nel cuore del «distretto ardente». Lucretia Mott, Elizabeth Cady Stanton, Martha Wright e Mary Ann McClintock si apprestavano così a porre la loro firma sotto quello che era destinato a diventare testo canonico nella storia delle donne e vero e proprio monumento del femminismo americano. Il sentimento che dichiaravano era di essere «inette e senza speranza, come se all'improvviso fosse stato loro chiesto di costruire una macchina a vapore», ma la loro Dichiarazione dei sentimenti intendeva «inaugurare una ribellione quale il mondo non aveva mai visto». Tutt'altro che una tempesta in una tazza da tè. Il testo della Dichiarazione di Seneca Falls viene ora pubblicato, insieme al resoconto della successiva Convenzione di Rochester, in un volume curato da Raffaella Baritono con il suggestivo titolo Il sentimento delle libertà (La Rosa Editrice, Torino, euro 14,50).

Sentimento di libertà femminile che qui si esprime urgente, ma anche si agisce e si patisce insieme con le sue contraddizioni. Come quella di prendere sì la parola, ma proclamando «Quando nel corso degli eventi umani...». Ricorda Cady Stanton che di fronte ad un intento tanto nuovo ci si dovette rassegnare all'umiliazione di «leggere attentamente varie opere di uomini» e che trovando perlopiù i discorsi politici correnti «troppo timidi e pacifici» solo la Dichiarazione di indipendenza sembrò loro all'altezza di ciò che si proponevano.

La Dichiarazione dei sentimenti è così redatta sul quel solenne modello maschile, in una sorta di mimetismo che ricorda da presso il precedente di Olympe De Gouges e della sua Dichiarazione dei diritti della donna. «La storia dell'umanità è una storia di torti e di arbitrii ripetuti dell'uomo nei confronti della donna, che hanno avuto direttamente a oggetto la creazione di un'assoluta tirannia su di lei». Quindi, elencati i fatti che ad Egli vanno imputati e «in considerazione del fatto che una metà del popolo di questa nazione è privata dei diritti politici e che è socialmente religiosamente degradata - nonché in considerazione delle ingiuste leggi prima menzionate e dal momento che le donne si sentono offese, oppresse e fraudolentemente spogliate dei loro diritti più sacri, noi insistiamo che esse siano immediatamente ammesse a godere di tutti i diritti e i privilegi che appartengono loro come cittadine degli Stati Uniti».

Primo atto, quindi, delle «magnifiche sorti e progressive» della lunga marcia femminile verso l'uguaglianza? Tappa cruciale di quella rivendicazione ad avere, con le parole di Walt Withman che la curatrice sceglie per aprire la sua introduzione, un eguale «posto nella processione»? Sì anche, certo (a Seneca Falls ora sorge un muro con incisi i nomi delle 300 firmatarie, e il monumento di Stanton, Mott e Susan Anthony sta all'U.S. Capitol), ma non solo. La storia della libertà femminile non si lascia facilmente raccontare così. Lo sa bene Baritono che giustamente riconosce qui in opera quello che Carole Pateman definì il «dilemma di Wollstonecraft»: la micidiale stretta nella quale si trovò per prima presa l'autrice di A Vindication of the Rights of Woman tra la richiesta di accesso a eguali diritti di cittadinanza, e la valorizzazione di una differenza femminile cui rispondessero differenti diritti. La tormentata storia del suffragismo americano inaugurata a Seneca Falls, con le sue cocenti lezioni, su fino alle vicende dell'Equal Rigth Amendment (ERA), e agli interminabili dibattiti degli anni `70-'80 sui diritti «eguali» o «differenti» sta a testimoniare di quanto tenace sia quella presa. Ma per quanto quella dell'alternativa «eguaglianza vs differenza» sia stata lungamente praticata come chiave di lettura nella storia delle donne, sempre più si è andata dimostrando, come ebbe a dire Joan Scott, piuttosto un'altra trappola che una chiave. Di nuovo, la storia della libertà femminile non si lascia intrappolare così, ma muove su linee di fuga impreviste.

Soprattutto non necessariamente marcia sulle strade maestre segnate dalla politica dei diritti, ma apre vie traverse e scorciatoie che puntano diritte alla politica. Così per stare sulle sue piste, occorre saperle riconoscere, ma ancor più intendersi su che senso ha «politica». Il che suggerisce forse un indizio per spiegare quello strano sentimento che alcune hanno avvertito a fronte di molta produzione di storia delle donne, che spesso si fosse mancato l'incontro con la libertà femminile, fosse soggetto o oggetto dello sguardo. D'altra parte, direi, non è mai un incontro scontato, visto che non dà appuntamenti e tantomeno nei luoghi stabiliti.

Il caso di quella stagione di protagonismo femminile che ha al centro la Dichiarazione di Seneca Falls è davvero esemplare in questo senso, e il lavoro storico di introduzione fatto da Raffaella Baritono è prezioso per comprenderne i termini, in particolare per l'attenzione che pone a non chiudere la ricchezza e la complessità degli eventi nelle griglie di lettura più consolidate, che fin troppo bene sono riuscite a fare di Seneca Falls e delle sue protagoniste un compiuto quadretto agiografico, fosse nella linea della storia degli eguali diritti delle donne, o in quella della sempiterna contraddizione eguaglianza/differenza. Gli ingredienti c'erano peraltro tutti: da una parte la presa di parola pubblica per la rivendicazione del voto e dei diritti di cittadinanza, l'uscita dalla domesticità e la rottura della mitologia delle «sfere separate» come dall'ideologia della «maternità repubblicana», in nome dell'eguaglianza. Dall'altra la fedeltà all'idea di una «superiorità morale» femminile, al maternalismo di speciali doveri e missioni delle donne, l'appello a differenti valori, alla dimensione dei sentimenti, in nome della differenza.

La Dichiarazione parla insieme queste due lingue: dei sentimenti e dei diritti. Testo, quindi, paradigmatico del campo di tensione che la differenza produce quando investe il territorio delimitato dal monopolio maschile della politica. E che facilmente si presterebbe ad essere letto come punto critico del passaggio da una parola femminile «impolitica», «privata» carica di una «retorica della benevolenza» al maturo linguaggio pubblico e politico dei diritti. O ad una lettura che vada a pesare quale piatto della bilancia eguaglianza-differenza pesi di più. Esercizi comunque istruttivi, non discuto, ma ormai decisamente esauriti e anche condannati alla sterilità di un dilemma bloccato dal modello dell'inclusione, se non addirittura fuorvianti. Più promettente mi pare allora la pista di lettura battuta da Baritono: quella di tenere sì viva la centralità dell'evento di Seneca Falls, ma non di un processo di passaggio dall'esclusione dalla politica alla richiesta di inclusione politica, ma della storia più complessa e ampia di una politicità anch'essa più ampia e complessa.

Le quattro tempestose signore convenute per il tè venivano da una rete di relazioni estesa e attiva, e quel salotto «era l'approdo di almeno un decennio di attivismo e di partecipazione delle donne alla vita pubblica». Escluse dalla cittadinanza politica esse «nonostante questo, si appropriarono di quegli strumenti, individuati nelle pieghe del sistema politico americano, che potevano utilizzare per affermarsi come soggetti pubblici» e per perseguire interessi generali «preferivano l'utilizzo di canali 'privati' attraverso i quali comunicare e diffondere il loro operato per vari motivi, non ultimo quello di evitare le accuse di una condotta moralmente riprovevole, quale poteva essere quella di `parlare in pubblico'».

Questa pratica intrecciava le maglie di un vasto attivismo sociale femminile e non, costruendo anche «legami e rapporti diretti con amministratori e legislatori, accedendo così direttamente ai processi decisionali». Veniva insomma a costituire una «presenza nello spazio pubblico che però non aveva il significato di un'inclusione in quel `political public' che si stava formando», e che d'altra parte non può che imporre «una rivisitazione del concetto tradizionale di un'esclusione tout court delle donne dalla sfera pubblica e anche da quella politica». A questo punto Baritono avanza l'ipotesi che sarebbe opportuno parlare piuttosto che di una sfera pubblica di «una pluralizzazione della sfera pubblica», dicotomizzata per linguaggio, luoghi e modi d'azione secondo «confini di genere (oltre a quelli di razza), da un lato, una sfera pubblica modellata sui rituali maschili propri dei nuovi partiti politici di massa e che comprendevano anche manifestazioni ad essi collegati - parate, cerimonie pubbliche, meeting politici ed elettorali; dall'altro una sfera pubblica `femminile' che si costituiva sulla base di modalità diverse, che si fondavano su reti e contatti personali, su incontri e meeting organizzati utilizzando canali privati, basati sulla condivisione di valori religiosi, appartenenze comunitarie o di ceto».

Sfera pubblica femminile tanto efficace e vitale, questa, da riuscire anche a esercitare autorità e leadership sul variegato mondo delle associazioni filantropiche e abolizioniste maschili, al punto da tendere ad inglobarle. In questa luce la narrazione di un passaggio che segna alfine il mero accesso femminile alla politica appare del tutto inverosimile, e quella di una contraddizione eguaglianza-differenza mera palla al piede della libertà femminile, altrettanto riduttiva. Piuttosto per queste donne, rileva la curatrice «proprio la peculiarità del loro essere allo stesso tempo dentro e fuori il patto politico, faceva sì che la loro riflessione imprimesse al discorso politico una torsione che lo modificava radicalmente», giungendo a qualificarsi come «espressione piena e consapevole di una `womanhood'', intesa non genericamente come insieme di qualità `tradizionalmente femminili', ma sempre più come una differenza che in alcuni casi sembrava preludere a un concetto di differenza sessuale».

Come avvenne che quelle che, in questa luce, appaiono tutt'altro che quattro signore politicamente ingenue, e quelle che le seguirono poi, donne coraggiose, culturalmente agguerrite, strette da relazioni salde, estese e durature, e fedeli al sentimento che le aveva già portate diritte al cuore della politica, volsero il loro sguardo alla politica dei diritti e alla battaglia suffragista? Quale necessità politica le spinse a questo passaggio? Quali guadagni ne ebbero, e quali prezzi pagarono? A quali fonti di energia politica e vitale attinsero prima e poi dopo, quando certo i mille rovesci della lotta suffragista fecero perdere loro, se mai l'avevano avuto, l'innocenza politica?

Certo quelle lontane signore che in quell'estate calda parevano solo domandare il loro eguale «posto nella processione» mi sembrano ora più vicine alle domande di Virgina Woolf che quasi cent'anni più tardi dal ponte sul Tamigi guardava scorrere la «processione» dei figli degli uomini colti: «abbiamo voglia di unirci a quel corteo, oppure no? A quali condizioni ci uniremo ad esso? E, soprattutto, dove ci conduce il corteo degli uomini colti?». Più vicine, insomma, alle domande dell'estate calda presente.


Offline COSMOS1

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Re:origini del femminismo
« Risposta #1 il: Dicembre 26, 2013, 12:40:51 pm »
la mia bis-bis nonna nel 1848 aveva ben altre abitudini che prendere il thè  :hmm:
Dio cè
MA NON SEI TU
Rilassati

Offline Salar de Uyuni

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Re:origini del femminismo
« Risposta #2 il: Dicembre 26, 2013, 15:07:40 pm »
Per chi interessa,il (probabilmente) primo trattatello femminista,è molto antecedente al 1800 è del 1532
http://www.questionemaschile.org/forum/index.php?topic=9502.new#new
Da quando dio e' morto in occidente,pare aver prestato la sua D maiuscola al nuovo oggetto di culto la ''Donna''