Giovedì 25 Gennaio 2018. A Pioltello, in provincia di Milano, succede l’ennesima tragedia ferroviaria italiana: un treno deraglia violentemente per cause riconducibili a probabile manutenzione eseguita male. Ovviamente ci sono feriti e, purtroppo, pure 3 vittime (numero tutto sommato contenuto, rispetto a ciò che si è rischiato). A questo punto nessuno si aspetterebbe che, in un paese normale e mentalmente sano, l’attenzione mediatica si focalizzasse su un aspetto tanto stupido e superfluo quanto il sesso delle vittime. Ed, invece, no perché siamo in Italia, uno dei vari paesi occidentali dove l’odio anti-maschile ed il femminismo/donnismo imperante a tutti i costi, hanno, oramai, raggiunto livelli da ospedale psichiatrico a cielo aperto. I media nostrani, infatti, ci informano subito che si tratta di una “strage delle donne”, in quanto le 3 vittime erano tutte di sesso femminile:
Treno deragliato a Pioltello: Pierangela, Ida, Giuseppina. La strage delle donne.
Una viaggiava con la figlia studentessa che si è salvata. Lo strazio di parenti e colleghi: “Perdita immensa”di GIULIA BONEZZI, GABRIELE MORONI e ROBERTA RAMPINI
Milano, 26 gennaio 2018 – Sono morte tre donne, tre lavoratrici, il simbolo di quel mondo femminile che si divide quotidianamente tra mille incombenze, tra lavoro e famiglia, facendo enormi sacrifici. La sveglia all’alba, un viaggio su treni sporchi e stipati di pendolari, la dura giornata di lavoro e poi ancora una volta il treno, il viaggio di ritorno, stanche, mentre già si sta pensando a come organizzare la casa, a cosa cucinare, agli impegni del giorno dopo. Tre donne diverse, uniche, unite dalla tragedia, dal filo che si è spezzato all’alba di quello che sembrava un giovedì qualunque. I pensieri che si affollano su quello che fra poco si dovrà fare al lavoro e poi un rumore assordante, il treno che frena, la consapevolezza che i vagoni stanno deragliando, la paura, lo schianto, il buio. La fine.
Da ieri un’altra giovanissima donna, di appena 18 anni, è divisa tra la gioia di essersi salvata da quell’inferno e il dolore lancinante di avere perso la sua mamma. Pierangela Tadini, 51 anni, impiegata, viaggiava su quel treno maledetto con la sua Lucrezia, studentessa a Milano, che si è salvata. «Mia nipote ha preso una botta forte, è in ospedale», racconta la nonna Lucia, avvisata dalla stessa nipote della tragedia. «Quando ho sentito suonare il telefono alle 7.35 ho avuto subito il timore che fosse successo qualcosa di brutto».
Un’altra figlia invece non ce l’ha fatta, è riuscita appena a chiamare a casa: «Mamma aiuto, il treno sta deragliando…», ha detto Giuseppina Pirri, 39 anni, poco prima di spirare. «Poi è caduta la linea e c’è stato solo silenzio – racconta il padre, Pietro –. Mia moglie le ha detto scappa ma poi non ha sentito più niente. Sono corso là, era ancora incastrata dentro al treno. Poi mi hanno detto che non ce l’ha fatta. Mia figlia si lamentava sempre perché i treni erano spesso rotti e sempre pieni», dice l’uomo in lacrime fuori dall’obitorio. Giuseppina era ragioniera, ogni mattina si alzava presto per prendere il treno che da Capralba nel Cremonese la portava a Sesto San Giovanni dove lavorava in una società di recupero crediti.
Ida Maddalena Milanesi, 62 anni, di Caravaggio – medico, specializzata in radiologia, neurologia e neurologia oncologica, dirigente dello staff di radioterapia dell’Istituto neurologico Besta di Milano – era un’altra mamma, ma un po’ particolare. Madre della sua ragazza di 22 anni – che ieri mattina ha saputo della sua morte all’università mentre stava dando un esame perché vuole diventare medico come lei – e mamma anche un po’ di tutti i suoi pazienti al Besta.
«È a loro adesso che dobbiamo dirlo», si tormentavano ieri i colleghi straziati dal dolore. Ida Maddalena era amata dai suoi pazienti, e lei amava loro. Nel reparto di Radioterapia dell’Ircccs Besta dagli anni Ottanta aveva a che fare tutti i giorni con il dolore di chi scopre e poi combatte contro malformazioni o tumori cerebrali. «Ognuno di loro per lei era un caso unico, non si dava pace», dice Maria Grazia Bruzzone, la collega e amica («Abbiamo lavorato insieme fin da giovani, tanti ricordi») che non trattiene le lacrime. «Le chiedevo perché non vieni a lavorare con me? Rispondeva: “Lo farei, ma i miei pazienti mi mancherebbero”». Pierangela, Giuseppina, Ida Maddalena: tre donne fra impegni, arrabbiature quotidiane, rimpianti. Ma anche tanti sogni, ancora tutti da vivere, sognati magari proprio mentre quel treno viaggiava veloce verso il lavoro. E ieri invece verso la morte. Tre vite spezzate. «Una perdita enorme, un’ingiustizia».http://www.ilgiorno.it/milano/cronaca/treno-deragliato-1.3684886
Come si può notare, non solo gli autori dell’articolo fanno delle palese discriminazione sessuale basata puramente sul sesso d’appartenenza delle vittime, ma l’attenzione del lettore viene subdolamente deviata su aspetti che con la tragedia in questione non hanno nulla a che fare e cioè sui sogni, le speranze, le arrabbiature, i rimpianti, le peculiarità personali, ecc. delle donne decedute nonché sul fatto che quelle stesse donne stessero andando a lavorare (gli autori del vergognoso scritto vogliono, forse, far intendere che è colpa del fantomatico “patriarcato” se le donne, oggi, devono alzarsi presto, lavorare e rischiare anche la vita durante il tragitto casa-lavoro). A questo punto la domanda viene spontanea: perché nessun/a giornalista si è mai preoccupato/a delle speranze, dei sogni infranti, delle arrabbiature, delle delusioni, ecc. di tutti i tantissimi uomini (maschi) che sono morti e continuano a morire sul lavoro (ricordo che le cosiddette morti “bianche” sono tutt’oggi maschili per il 93/98% dei casi https://www.vegaengineering.com/osservatorio-sicurezza-sul-lavoro-infortuni-mortali/ ), che sono morti e muoiono per salvare la vita ad altre persone, in incidenti vari, in guerra, ecc.? Loro, forse, non sono individui degni di tutte queste attenzioni in quanto appartenenti al sesso maschile? In poche parole, ci stanno facendo capire che siamo di fronte ad un fantomatico “femminicido ferroviario” in cui la morte di una donna deve valere, sempre e comunque, di più rispetto a quella di un uomo? Perché quello che si evince da tutto ciò è questo.
Qualche anno fa, le femministe inventarono, infatti, la parola “femminicidio”. Agli albori ci volevano convincere (falsamente) che questo cosiddetto “femminicidio” fosse solo un termine mediatico (quindi non legale) per evidenziare esclusivamente quella fattispecie di reato che prevedeva la morte di una donna per mano di un uomo, avvenuta a seguito di un fine relazione non accettato. Ma i più informati sapevano bene che tutto ciò era solo un tentativo subdolo per tentare di far riconoscere legalmente una fattispecie generica d’omicidio a parte e soprattutto più grave, quella femminile:
https://books.google.it/books/about/Femminicidio.html?id=SH1e2ACGTEgC&redir_esc=y
Ora i nodi vengono di nuovo al pettine, per cui se in un incidente ferroviario o in una fatalità qualsiasi muoiono solo donne, allora vuol dire che la cosa è più grave e che il tutto va ampiamente sottolineato e contornato da una buona dose del solito, falso e strumentale vittimismo femminista.
Le frontiere della misandria e del femminismo (o nazi-femminismo, fate voi), si fanno sempre più cupe dalle nostre parti. E ora che gli uomini comincino a rendersene conto e comportarsi di conseguenza.
1) “….. (gli autori del vergognoso scritto vogliono, forse, far intendere che è colpa del fantomatico “patriarcato” se le donne, oggi, (*) devono alzarsi presto, lavorare e rischiare anche la vita durante il tragitto casa-lavoro).”
2) “Le frontiere della misandria e del femminismo (o nazi-femminismo, fate voi), si fanno sempre più cupe dalle nostre parti. E ora che gli uomini comincino a rendersene conto e comportarsi di conseguenza.”
1) Innanzitutto attenzione al significato dei termini. Non credo per ignoranza, ma solo per vergognosa inclinazione di qualche gruppo di opportunisti al fine di soddisfare la propria natura degenerata che è stato da decenni accostato al termine”patriarca” l’errato significato di despota. Voglio ricordare a tali personaggi (“lor signori” sarebbe inadeguato) che “patriarcato” discende da “patriarca” , che a sua volta deriva da “patria” , “gruppo” , “tribù” e che ,pertanto, costui ne patisce le conseguenze, talvolta feroci, se non vigila opportunamente sul retto comportamento di ognuno i componenti e, nel caso, correggere le devianze di taluni che possano ledere la serenità dell’intera comunità. Dunque , che la si smetta con tali inqualificabili speculazioni.
( * ) Altro è entrare nel merito della seguente frase “…… se le donne, oggi, devono alzarsi presto, lavorare e rischiare anche la vita durante il tragitto casa-lavoro).” Solo loro?
La donna “non emancipata” di 100 anni fa non soffriva di tali pesanti e variegate incombenze e non correva pericoli mortali nell’espletamento dei suoi (specifici) compiti. La donna “non emancipata” del periodo di cui sopra “sopraffatta” – così è abitudine dire liberamente – dal “ marito/padre/padrone”, gestiva personalmente i tempi occorrenti per le necessità della famiglia – e dunque proprie – , nel proprio ambiente, stabilendone autonomamente anche le priorità. Nessuno le imponeva i tempi di “produzione”, nessuno la importunava, nessuno la sottopagava, nessuno la stuprava, nessuno la costringeva di alzarsi all’alba se non talvolta per curare con amore la sua prole nei primi giorni di vita. La donna non emancipata – casalinga stupida sottomessa, così sconsideratamente giudicata – di allora, era riverita anche e soprattutto in compagnia del suo uomo. Le si aprivano gli usci prima ancora che ella potesse attraversarli, come anche nessuno si permetteva di non darle la precedenza per qualsivoglia necessità. Alla donna “non emancipata” era impensabile indirizzarle epiteti che oggi si indirizzano con sfrontatezza alle, quel di ora, evolute e non la si guardava negli occhi con intensità anche se attraenti, per non mancarle di rispetto.
Di cosa si lamentano, dunque le nostre emancipatone – da distinguere dalle donne “con i piedi in terra” – se esse stesse hanno dato adito a quattro predoni di diritti ed identità di plasmarle come programmato per meglio sfruttarle nelle fabbriche del padrone a prezzi stracciati e costrette a tali condizioni perché altrettanto stracciati sono gli stipendi (?) – meglio dire compensi – dei propri uomini per via della loro concorrenza?
2) Per quanto detto, la seguente frase contenuta in articolo “ Le frontiere della misandria e del femminismo (o nazi-femminismo, fate voi), si fanno sempre più cupe dalle nostre parti. E ora che gli uomini comincino a rendersene conto e comportarsi di conseguenza.” Andrebbe modificata nella parte finale in tal modo: “E ora che LE DONNE comincino a rendersene conto e comportarsi di conseguenza.” per riappropriarsi del valore della propria identità scippata.
Basti vedere come viene dipinta “freddamente” la morte dei tre operai di Milano.
http://milano.corriere.it/notizie/cronaca/18_gennaio_16/milano-infortunio-lavoro-quattro-operai-intossicati-lamina-spa-grave-9fc7ed7c-fadb-11e7-88bf-04c0b4baa14a.shtml
Non avevano anche loro “sogni, ancora da vivere”?
E’ una guerra. Una sporca guerra.
Continua. Quotidiana. Ininterrotta.
Ma in quanto tale, chiama gli uomini al combattimento.
Bisogna rispondere colpo su colpo.
Con tutti i mezzi possibili che ogni uomo con la spina dorsale dritta, ha a disposizione.
Questo pezzo è un esempio di come sia necessario denunciare e sbugiardare questi squallidi e subdoli attacchi.
Colpo su colpo.
Ogni attacco…un contrattacco.
Questa guerra va combattuta e vinta.
Ogni uomo che si ritenga degno di questo nome deve sentirsene parte.
Vietato disertare.
Per i vili in tempo di guerra c’è il plotone d’esecuzione.
E il disonore.