Ormai in vista del convegno, pubblichiamo un intervento dell’avv.Massimiliano Fiorin.
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Maturità classica con 60/60 nel 1985.
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Laureato con 110 e lode in Giurisprudenza presso l’Università di Bologna, nel 1991.
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Tesi in Diritto Commerciale, prof. Vito Mangini.
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Già collaboratore alla Cattedra di Diritto Commerciale presso l’Università di Bologna.
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Giornalista pubblicista dal 1992, ha collaborato stabilmente con “Corriere della Sera”, “Europeo”, “Agenzia Giornalistica Italia”, presso le rispettive sedi di Milano.
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Autore dei saggi “La Fabbrica dei Divorzi – Il Diritto contro la Famiglia” (ed. san Paolo, 2008) e “Finchè la legge non vi separi” (San Paolo, 2012).
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Attualmente collabora con varie riviste giuridiche, blog e con il quotidiano “Avvenire”.
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Praticante avvocato dal novembre 1993, presso lo Studio Calda di Bologna (diritto civile, immobiliare, commerciale).
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Avvocato dall’ottobre 1996, iscritto all’Ordine di Bologna al n. 3608.
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Patrocinante avanti la Corte di Cassazione e le altre Magistrature Superiori.
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Corso annuale di perfezionamento in Diritto Tributario “Antonio Berliri”, presso l’Università di Bologna, nella stagione 1998-1999 (160 ore).
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Presidente della Camera Civile di Bologna “Alberto Tabanelli” dal 2008 al 2011. E’ stato presidente della Camera dei Giovani Avvocati di Bologna e Tesoriere della sezione Aiga – Associazione Italiana Giovani Avvocati di Bologna.
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Attualmente è presidente della “Associazione per la Conciliazione Familiare – ACF”
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Ha tenuto lezioni e seminari per corsi di aggiornamento professionale, su temi di diritto civile, commerciale e societario, nonché da ultimo su temi di diritto di famiglia.
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Coniugato, tre figli.
Nonostante la crisi, i ristoranti sembrano ancora abbastanza affollati. Purtroppo, sono le famiglie a essere sempre più deserte. Quest’ultimo Natale, meno italiani sono rimasti a casa propria per consumare il tradizionale pranzo, o la cena della vigilia, attorniati dall’affetto dei propri cari.
Non è una moda, ma una conseguenza di quanto risulta dalle statistiche. In Italia, coloro che vivono in nuclei familiari non composti dai genitori e almeno un figlio stanno avvicinandosi alla soglia del 60%. Ciò significa che la crescente maggioranza dei nostri connazionali – anche senza contare gli anziani soli – vive da single o nell’ambito di semplici convivenze.
In un quadro così desolante, è facile che le abitudini tradizionali finiscano per stravolgersi, e che per gli adulti, specie quelli di mezza età, la nostalgia delle feste di fine anno che si trascorrevano da piccoli sia diventata sempre più struggente. Alcuni studiosi, come lo psicanalista Claudio Risè, sostengono che all’origine della violenza sui bambini – della quale la strage di Newtown ci ha recentemente offerto un esempio tragico e spettacolare – vi sarebbe proprio la nostalgia per l’infanzia felice della quale si è stati privati. Tra l’altro, va detto che Adam Lanza, il giovane omicida statunitense, proveniva da una famiglia “monogenitoriale”, visto che la madre aveva divorziato nel 2008 e il padre era da molto tempo assente dalla sua vita. Alla fine, dunque, tutti questi fenomeni di violenza sono in qualche modo collegati al venir meno delle strutture familiari tradizionali.
Tuttavia, stando almeno ai commenti dei media, più la violenza cresce, e meno si è disposti a considerare la crisi della famiglia tra i fattori principali che la determinano. Su questi temi, non si riesce a far nascere un dibattito che sappia davvero riconoscere la causa ultima di certi fenomeni, senza rifugiarsi nelle ideologie individualiste, soprattutto di stampo femminista.
Al contrario, risulta evidente la difficoltà ad evadere dai luoghi comuni, riguardo alla spiegazione di fatti violenti che non hanno alla base né l’emarginazione sociale e economica, né storie di comune criminalità. Vale per la violenza sui bambini, ma anche per quella sulle donne, che tanto appassiona i commenti politici e giornalistici.
La spia rivelatrice delle dosi massicce di propaganda, quando si tratta di certi problemi, sta nella tendenza a alterare i numeri. Da molti anni, ad esempio, si parla della violenza maschile come “prima causa di morte per le donne dai 15 ai 50 anni”. Anche di recente, da parte di organismi internazionali, si è continuato a reiterare affermazioni simili, apparentemente basate sulle statistiche. In ambienti Onu, qualche tempo fa, si è pure affermato che l’Italia sarebbe niente meno che il primo Paese europeo per morti da violenza domestica.
Eppure, basterebbe uno sguardo ai dati Istat per verificare che le morti femminili violente, nella fascia d’età che di solito si cita, sono meno del 2%. E la metà di queste morti non sono attribuibili a odio per le donne in quanto tali, ma sono facilmente spiegabili con moventi diversi. Le stesse statistiche degli uffici delle Nazioni Unite dedicati alla repressione del crimine hanno riconosciuto che l’Italia è uno dei paesi europei con minor tasso di omicidi di donne, smentendo così le affermazioni di altre funzionarie Onu che si occupano nello specifico della cosiddetta violenza “di genere”.
Vale a dire che il cosiddetto “femminicidio” – inteso come una sorta di guerra degli uomini contro le donne – è privo una reale base statistica. Anche se dal punto di vista mediatico il clamore che genera è fortissimo, come dimostra anche la recente triste vicenda del parroco di Lerici.
Beninteso, non si può negare che esistano la violenza sessuale così come quella contro i minori, e che si tratti di fatti preoccupanti da affrontare e reprimere. Quello che non ha alcun fondamento, tuttavia, è la tendenza a considerare il fenomeno come una guerra di genere, di uomini contro donne (e bambini), e ancor prima come una guerra tra individui.
Queste esagerazioni nascono a causa dell’indisponibilità a considerare la violenza come una conseguenza della crisi della famiglia. Anche se gli omicidi-suicidi in ambito familiare, che avvengono per ragioni connesse alla separazione dei coniugi, in Italia sono un centinaio all’anno, e superano di molto le morti dovute alla criminalità organizzata.
Il dato è eclatante, ma nessuno si azzarda a denunciare il fenomeno per quello che è, per non mettere in discussione il primato della libertà individuale rispetto alle ragioni della famiglia. Oltretutto, i responsabili dell’omicidio di mogli e conviventi, il più delle volte – quando non si suicidano subito anche loro – finiscono per costituirsi nell’immediato, e accettano senza fiatare la condanna. A dimostrazione della dubbia utilità sociale di un inasprimento delle pene. Così come dell’urgenza, finora inascoltata, di reimpostare completamente i termini del problema.