PAS e famiglie monoparentali: un modello sostenibile?

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Il bambino nasce nel corpo materno, è una prerogativa femminile, ma l’uomo è necessario. Il legame tra il padre e la madre precede l’arrivo del figlio e —normalmente— permane in seguito, e in questo senso il padre è l’immagine della legge, dell’iscrizione simbolica: il momento in cui il padre trasmette il suo seme è un momento privato, il figlio non ne è testimone, ma la madre sa chi è il padre e mostra il padre al bambino.
Poiché il figlio nasce nel corpo materno, simbolicamente la madre è contenente, quindi il bambino che nasce la lascia: a questo punto, o c’è un padre che accompagna il figlio, che lo conduce verso la legge e verso il mondo, o la madre dice “È mio!” e si tiene il bambino.
È questa la tradizione matrilineare delle popolazioni indigene più arcaiche, che esiste ancora oggi e alla quale stiamo tornando: la secolarizzazione e il bando del sacro fanno ritornare la matrilinearità, perché la natura che non sia iscritta in un contesto culturale e in particolare cristianizzato ritorna alla sua condizione primordiale, ai suoi fondamentali.
La madre afferma simbolicamente: “È il mio bambino! È il mio corpo! È mio!” Si tratta di un’attitudine possessiva ancestrale: quando c’è un’adozione, si può notare che la madre non apprezza affatto che ci sia un nuovo padre, una nuova madre, qualcuno che vegli sul suo bambino.
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Stiamo quindi ritrovando, per effetto di una decostruzione culturale, questa forma più arcaica di paganesimo che è la matrilinearità: una donna che genera un’altra donna, che a sua volta ne genera un’altra. Incidentalmente può nascere anche un maschio, ma gli uomini sono di troppo; la mascolinità, la funzione paterna è atrofizzata.
Entrambe le figure parentali, paterna e materna, sono necessarie alla nostra costruzione: la madre porta il bambino, ne assicura le cure, e il padre lo educa, lo forma. Spetta principalmente a lui farne un essere umano adulto, maturo, compiuto, aperto al mondo.
Il rapporto dell’uomo e della donna ha necessariamente all’inizio un fondamento differenziale, perché la donna porta il bambino nel suo corpo, e l’uomo rappresenta il rapporto con il cosmos: è colui che fa uscire il bambino dal corpo materno per scoprire lo spazio allargato del vasto mondo, ma anche dei luoghi che non sono il luogo del contenente materno, di cui il focolare è un po’ un prolungamento; per esempio la scuola, l’impresa, i luoghi di riunione, i movimenti giovanili.
È questa scoperta progressiva del mondo che fa in modo che, nati in un corpo umano localizzato, accettiamo a poco a poco una conoscenza possibile dell’insieme dei luoghi riconoscibili. Questa apertura può considerarsi in qualche modo come una logistica della libertà, nella quale il soggetto trova tra l’altro l’attitudine fondamentale alle necessità di sussistenza.
Ma parliamo ormai di un altro momento della storia, perché ai nostri giorni non di rado il padre sta davanti alla tv o a un bicchiere di birra con gli amici e alla fine la madre fa tutto: va al lavoro, va a prendere il figlio a scuola, se ne occupa, ne ha cura, è lei che gli parla, che gli fa i discorsi, che forma il suo immaginario, e il padre non è più là.
La sua funzione simbolica, quella che andava ad innestarsi sul ruolo naturale effimero che aveva avuto per la nascita del figlio, ma che non è destinata a essere effimera sul piano educativo, si rivela un ruolo disertato: perché un uomo lo adempia, bisogna che l’abbia appreso, che abbia avuto lui stesso un padre che l’abbia fatto davanti a lui. Un bambino che non abbia avuto sotto gli occhi un padre che ha fatto il padre, in maniera tale che lui stesso abbia voglia di essere uomo come suo padre è uomo, dove cercherà i punti di riferimento del suo percorso?
La figura dell’uomo è degna di stima nella misura in cui è capace di risolvere i problemi ai quali si confronta: il legame naturale favorisce l’ascolto che il bambino può prestargli, e legittima l’interesse che il padre porta al figlio. A partire da ciò, c’è un accompagnamento, una guida che può farsi perché il bambino ha davanti a lui una figura paterna che tiene la rotta, che è un modello sufficientemente buono.
La funzione paterna è innanzitutto quest’apertura sul mondo. Non si tratta quindi di una semplice divisione del lavoro e delle cure parentali: in realtà la “casalinga” non è esistita grosso modo che dalla seconda metà dell’Ottocento agli anni Cinquanta, prima la donna del popolo lavorava tutto il tempo.
Ciò che è importante capire è che la messa in dubbio di questo modello, attraverso la limitazione delle nascite per esempio, pone nuovamente la questione di una coppia organizzata intorno ad un progetto dove la rivalità, nella misura del possibile, sia ridotta al minimo; dove la fiducia nell’altro possa essere favorita da una solida base comune, non in una sorta di dualità più o meno concorrenziale.
Per ogni generazione, non c’è saggezza o sapere di cui non bisogni ad un momento dato appropriarsi, che non sia da sottoporre a critica nel senso filosofico, vale a dire mettere sotto esame le scelte dei comportamenti genitoriali, i modelli che riceviamo da loro e vedere se infine possiamo stabilire un’alleanza con loro. Contrariamente all’ottica freudiana, il gran lavoro dell’infanzia è sapere con chi fare alleanza; e per l’adolescente è ben più importante la domanda: “Posso fare affidamento sul padre che ho per condurre la mia barca e arrivare ad una vita d’uomo?” O, per una ragazza: “Tutti gli uomini sono così? E comunque, ci si può fidare di qualcuno di loro?”
È il rischio che corrono quelle che decidono di allevare bambini per conto proprio, con l’ambizione di ricoprire un doppio ruolo. È lì che si situa l’illusione: una madre che dà da pensare a sua figlia che può essere padre e madre per conto proprio si trova molto rapidamente contestata in questa pretesa, perché il bambino non è solo al mondo e l’ambiente scolastico, che è il suo primo confronto con il mondo circostante, gli fa constatare che i suoi compagni hanno un padre e una madre. È vero che è sempre più comune vedere delle situazioni rimediate, ma queste ultime non sono mai banalizzate, e non sono viste che come carenze moltiplicate.
La mancanza di una famiglia in cui vi sia un padre e una madre ha dunque atrofizzato la funzione paterna: per soffrire meno il bambino va in qualche modo a sminuire la necessità dell’assente, vale a dire che simbolicamente va ad elaborare l’idea di un’inutilità. Colui che non ha beneficiato della funzione parentale in questione è esposto a non comprenderne la mancanza, né quale potrebbe essere questa figura in una forma equilibrata.
Essendo il padre una figura simbolica, può essere assente fisicamente ma presente simbolicamente; se non è presente nel discorso materno, il bambino può essere sostenuto da un genitore simbolico, un genitore formale, che ha vissuto con la madre, o che ha un legame con lei e di cui la madre parla.
Tuttavia nel caso di una madre che del padre non parla mai, o ne parla in termini negativi, il bambino cresce senza padre e senza sapere cosa sia la paternità. E se non sa cosa essa sia, non la va a costruire simbolicamente senza incorporare un certo numero di assurdità che il padre avrebbe corretto se ne avesse avuto conoscenza.
C’è una forma senz’altro preoccupante d’illusione sulla capacità di un genitore di assumere le due funzioni; in secondo luogo c’è la negazione del fatto che ciò che è strutturante per il bambino sono due discorsi coerenti: un solo discorso parla di se stesso, due discorsi sono già i fondamenti d’una struttura cognitiva. Quando ci sono due persone che dicono la stessa cosa, che vedono la stessa cosa, si può essere sicuri che non si tratta di una semplice opinione; una sola persona che afferma “vedo una tal cosa”, è un discorso, non è un’affermazione avente il valore di conoscenza: si parla di sé, non si parla del mondo.
Il bambino che manchi di un padre o di una madre avrà bisogno per soffrire meno di negare la necessità di ciò che gli manca, instaurando un meccanismo di ripetizione che si vede continuamente: vuole evitare assolutamente ciò che ha vissuto e ricomincia esattamente allo stesso modo.
Ci sarà dunque una reazione psicologica alla mancanza di paternità o di maternità, che condurrà il bambino in crescita a essere esposto al fatto di riprodurre la situazione che ha vissuto e dalla quale vorrebbe uscire, perché in effetti non ha criticato la propria atrofia della funzione paterna o materna. Se una donna ha una figlia e caccia il padre in questione, la figlia va a successivamente a mettersi con dei tipi che sono come farfalle intorno a una lampada, e nessuno va a costruire con lei una relazione feconda. Costei andrà a fare un figlio con uno qualunque di costoro, e lo alleverà da sola: avendo atrofizzato il riferimento paterno in lei stessa, andrà a privarne la figlia piuttosto che parlarle della propria mancanza.
Ormai è il giudice minorile che fa esistere il padre —e d’altra parte lo fa pagare. E a livello sociale si è ben compreso che il bambino è una fonte di reddito per una donna sola, che spesso lo mette al mondo per ricavarne dei benefici economici e sfruttare il padre attraverso il divorzio.
Il padre che è stato presente storicamente, sia pure in modo fugace, è iscritto interamente in una relazione simbolica, e per esistere come padre ha bisogno di essere validato dalla madre; dimodoché attraverso il rispetto che il padre attribuisce alla madre, il bambino scopre sotto i suoi occhi la qualità della relazione d’origine dalla quale è nato.